Il linguaggio non verbale è notoriamente per noi italiani un elemento essenziale!
Ma a volte può anche essere fonte di alcuni fraintendimenti…
Ecco una piccola video-guida per evitarne alcuni.
2. Quel che vedi dipende dalla prospettiva in cui ti trovi. Per riuscire a vedere la tua prospettiva, devi cambiare prospettiva.
3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a capire come e perché.
4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico.
5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti perché incongruenti con le proprie certezze.
6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti.
7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sè.
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Proviamo a sperimentare queste semplici regole nella nostra vita quotidiana.
In fin dei conti, neppure Maradona fece mille palleggi la prima volta che prese in mano la palla!!! Tutto si impara, è solo questione di esercitarsi.
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Il Rapporto 2009 appena reso noto da Amnesty International conferma la tendenza in corso ormai da oltre 30 anni verso il progressivo abbandono della
pena capitale.
Dal 1976 ad oggi, infatti, una media di tre nuovi Paesi ogni anno ha aggiunto il proprio nome alla lista dei paesi che l’hanno abolita.
Appena due anni fa, sempre basandomi sui dati di Amnesty International, evidenziavo nel mio libro Non è vero che tutto va peggio l’incredibile aumento nel numero dei paesi che l’hanno abolita per legge o in pratica, che erano passati in soli 30 anni da 16 a 135!!! Oltre i 2/3 degli stati del mondo.
Beh, ora questi paesi sono cresciuti ancora, arrivando a 139 su un totale di 197.
Anche il numero dei paesi in cui sono state eseguite esecuzioni capitali è sceso ancora, da 24 a 18, cioè meno del 10% dei Paesi della comunità internazionale e
le esecuzioni che erano diminute in due anni da 2148 a 1252, sono ulteriormente scese fino a 714.
I Paesi che hanno completamente abolito la pena capitale sono saliti a 95 e ci
sono due continenti – Oceania ed Europa – che nel 2009, per la prima volta in assoluto nella storia, non hanno fatto registrare esecuzioni!
Del resto, come si legge nel Rapporto di Amnesty anche “in tutto il continente americano, gli Usa sono stati l’unico paese ad eseguire condanne a morte”.
Inoltre, come sottolinea Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia: “E’ importante sottolineare quanto il continente più refrattario alla tendenza abolizionista, cioè l’Asia, sia il continente nel quale sono stati registrati passi
avanti importanti, tant’è che Afghanistan, Indonesia, Mongolia e Pakistan non hanno fatto registrate esecuzioni, e l’India, per il quinto anno consecutivo, ha portato avanti una moratoria.
Certamente è in Asia però che c’è il buco nero della pena di morte, perché presumiamo che le esecuzioni in Cina siano state ancora migliaia.
Abbiamo chiesto al governo di Pechino di rendere pubblici i dati sulle esecuzioni, perché se dicono ormai da tempo che le esecuzioni sono in diminuzione, non c’è alcuna ragione per cui la pena di morte debba rimanere un segreto di Stato.”
Se alcuni Paesi, come la Cina, alzano un muro di omertà di fronte a questa piaga, forse è proprio perché si rendono conto che la pena di morte è considerata ormai
a livello universale una questione di diritti umani e quindi circondare dal segreto i dati serve ad impedire un’ulteriore e più forte condanna e stigmatizzazione da parte della maggioranza dei Paesi del mondo, che ormai sono abolizionisti convinti.
Come ha dichiarato Claudio Cordone, Segretario generale ad interim di Amnesty International: “Sempre meno paesi fanno ricorso alle esecuzioni. Come in passato con la schiavitù e l’apartheid, il mondo sta respingendo questo affronto all’umanità. Siamo più vicini a un mondo libero dalla pena di morte, ma fino a
quel giorno bisognerà opporsi a ogni esecuzione“.
Nonostante la rapida crescita delle rinnovabili negli ultimi anni, fino ad oggi c’era un problema: con tutta la buona volontà, crescevano meno rapidamente delle fonti convenzionali.
Non c’era troppo da stupirsi di questo fatto, con la Cina che metteva in funzione una nuova centrale a carbone ogni mese, o giù di li’.
Come conseguenza, secondo le proiezioni dell’IEA (International Energy Agency) le rinnovabili non avrebbero mai dovuto avere un impatto significativo sul panorama energetico mondiale. Era un altro tassello che reggeva la diffusa opinione che “le rinnovabili non riusciranno mai a sostituire i fossili”.
Ma ora le cose sono cambiate. Nel 2008, infatti, per la prima volta la crescita delle rinnovabili ha superato quella delle fonti fossili sia in Europa che negli USA.
I dati li possiamo leggere nel rapporto di REN21, un’agenzia che si occupa delle energie rinnovabili. E sono dati molto incoraggianti. Di tutte le varie fonti rinnovabili, il fotovoltaico è quello che cresce più rapidamente (addirittura il 70% in più nel 2008, rispetto al 2007). Ma anche il vento cresce bene (+29% nel 2008) e, in generale, tutti i dati sono incoraggianti.
Ma c’è anche un altro cambiamento epocale nel 2008: secondo i responsabili del programma ambientale delle Nazioni Unite gli investimenti in energie rinnovabili hanno superato per la prima volta quelli in combustibili fossili.
I dati sembrano in netta controtendenza con il difficile momento che sta vivendo l’economia mondiale. Secondo il rapporto “Tendenze mondiali degli investimenti in energia sostenibile 2009” l’anno scorso si sono investiti nel mondo 155 miliardi di euro, soprattutto in progetti eolici e solari: una cifra record che fa ben sperare per il futuro. “Il 2008 è stato il primo anno in cui ci sono stati più investimenti in fonti energetiche che non usano combustibili fossili, rispetto a quelle in fonti ad alto uso di carbonio e nucleare – ha dichiarato il responsabile per il programma ambientale dell’Onu Achim Steiner – E’ un risultato molto significativo”.
Questo avviene soprattutto grazie al ruolo dei paesi emergenti, come Cina e Brasile. Pechino è passata infatti in pochi anni da essere un paese senza energia eolica a diventare il maggior produttore mondiale del settore: i nuovi investimenti cinesi sono aumentati infatti del 18% rispetto al 2007, a quota 15,6 miliardi di dollari.
In crescita anche le spese del Brasile, con uno stanziamento di 10 miliardi di dollari per la produzione di etanolo, e quelle indiane, in salita del 12% con 4 miliardi di dollari. Importante contributo anche dai paesi africani, che per la prima volta nella storia hanno superato il miliardo di dollari in investimenti.
In Italia, nel frattempo, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della Legge 27 febbraio n.13/2009, il nostro simpatico governo -convinto di poter fermare la storia- ha cancellato l’obiettivo del 25% da rinnovabili entro il 2012, come prevedeva invece la legge 244/2007.
L’energia eolica comunque, tanto per fare un esempio, ha conosciuto in Italia nel 2008 un incremento del 35% arrivando a oltre 6 TWh di energia prodotta.
Energia pulita pari al fabbisogno domestico di oltre 6 milioni di abitanti!
La parola “crisi”, già a partire dalla sua etimologia, porta con sé una doppia valenza, positiva e negativa.
“Crisi” deriva dal greco “krisis”, che vuol dire separare ma anche scegliere. Rappresenta quindi una rottura col passato, un momento di cambiamento, un momento in cui si devono prendere importanti decisioni.
E’ interessante notare come anche per i cinesi l’ideogramma che sta per “crisi” (in mandarino si pronuncia “wei ji”) ha anche un altro significato: “opportunità”.
L’ideogramma infatti è composto da due termini: la parte superiore significa “Pericolo (Wei), quella inferiore “Opportunità” (Ji).
Ecco che i cinesi ci insegnano da millenni a scovare le opportunità fin dentro le crisi più nere.
Questo concetto è espresso magnificamente nella celebre la frase di Lao Tze: “Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”.
Jacopo Fo ha riflettuto su questo concetto nelle ultime pagine del nostro libro “Non è vero che tutto va peggio”:
“Siamo in un momento nel quale prevale ancora la distruzione di tutti gli antichi valori che facevano da contorno a un’organizzazione sociale sostanzialmente repressiva, violenta e asfissiante. Ora ci troviamo con i vecchi valori a pezzi e i nuovi che ancora non si sono affermati. Ma io sono convinto che proprio per questo le cose stanno per cambiare ancor più radicalmente, in meglio.
Non c’è più molto che leghi gli umani ai vecchi modi di pensare. È ormai matura la consapevolezza che il sistema sociale basato sul petrolio e lo sfruttamento non funziona più. Non abbiamo bisogno di maggiori quantità di merci, abbiamo bisogno di scoprire il piacere, la passione e l’amore.
Insomma, è un diverso modo di intendere l’esperienza di vivere. Sono convinto che già da qualche anno stiamo vedendo i segni di una nuova rivoluzione delle coscienze e degli stili di vita di portata planetaria. Una rivoluzione senza leader e senza partiti.
Una rivoluzione degli stili del quotidiano, dei consumi, dei desideri.”
Tuttavia, non possiamo non ricordare che per milioni di persone nel sud del mondo, che già si trovavano al limite, la crisi è stata semplicemente devastante.
Alla fine del 2008, i prezzi dei prodotti agricoli erano più alti del 24% in termini reali rispetto al 2006.
La crisi inoltre si ripercuote doppiamente sui più poveri poiché, come ha osservato la Fao nel suo ultimo rapporto sulla fame nel mondo, “I trasferimenti monetari (le rimesse) degli emigrati nei loro Paesi d’origine sono diminuiti sostanzialmente nel corso di quest’anno, causando una notevole riduzione dei redditi familiari. La diminuzione delle rimesse ridurrà ulteriormente la capacità dei Paesi di avere accesso al capitale necessario a sostenere la produzione e a creare reti di sicurezza e schemi di protezione sociale per i poveri.”
Va ricordato inoltre che buona parte dei Paesi africani dipendono dagli aiuti esterni. In alcuni Stati, gli aiuti economici costituiscono addirittura il 40% del bilancio. Soldi che rischiano di diminuire sensibilmente, perché nei momenti di crisi ogni Stato tende a preoccuparsi della propria situazione interna.
Ma per fortuna ci sono anche importanti segnali positivi per quanto riguarda le alternative possibili al sistema che ha prodotto questa crisi: crescono i consumi responsabili in controtendenza con la generale contrazione dei consumi, si diffondono le certificazioni ambientali e sociali, le rinnovabili crescono più rapidamente delle fonti energetiche fossili e creano più posti di lavoro…
Di questi segnali, e dei loro frutti, vorrei trattare diffusamente in questo blog nei prossimi giorni.