Lasciatemi il mio mal di testa!

Un giorno -lo ricordo come fosse ora- avevamo appena finito di vedere un video sul lavoro minorile insieme ad una quinta elementare quando una bambina alzò la mano e mi chiese con voce spezzata:

“Come posso portare tutto questo dentro al mio cuore? Si spacca!”


Quelle sue parole mi riecheggiano ancora dentro a distanza di anni.
mafalda%2Bfrases_thumb%255B3%255D.jpgCredo che molti di noi in questi giorni vivano una sensazione simile a quella espressa da questa bambina.

L’accavallarsi di mille eventi tragici come il disastro del Giappone, la tragedia dei profughi nel mediterraneo, il continuo attacco alle fondamenta democratiche del nostro Paese, la situazione tragica della Libia e di tanti altri paesi in rivolta in queste ore… tutto questo ci chiama a gestire, spesso in silenzio, una tensione emotiva molto intensa e ci porta ad interrogarci in profondità sul tema della sofferenza umana e sul nostro rapporto con essa.
In questo tempo di Pasqua vorrei quindi provare ad abbozzare una riflessione proprio su questo tema eterno.

Inizierei ricordando il celebre augurio di Che Guevara che ci richiama ad una sana capacità di indignarsi in un’ottica di fraternità umana universale:

“Soprattutto siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi qualsiasi ingiustizia commessa contro qualsiasi persona, in qualsiasi parte del mondo.”

Tuttavia, anche in questa sensibilità che io condivido appieno, occorre trovare un equilibrio emotivo per vivere serenamente con sé e con gli altri.
Il geniale poeta e critico d’arte Carlo Manvisi, che ho il piacere di conoscere personalmente, ha scritto ironicamente in un suo splendido libretto dal titolo “Le verità nascoste”:

“Cammino sull’argine del Lamone. L’acqua del fiume, che torbida scorre, placa le mie ansie. Così la Senna placava i rimpianti del grande Guillaume.
Da ragazzo assimilavo le sofferenze altrui. Le disgrazie e i lutti del paese diventavano miei. Sbagliavo.
Se poi il Bologna calcio perdeva la partita, la domenica sera non mangiavo.”

E non si tratta di egoismo, di una semplice fuga introspettiva perché poche pagine dopo Manvisi scrive con una straordinaria nitidezza:
“Lo scopo della vita di ogni essere umano è amare ed essere amato. (…) Amare la natura, la libertà e combattere per l’affermazione della vita, per liberarla e sentirla cantare dentro di sè e nella voce degli altri.”

Non è questione dunque di rinunciare a vivere pienamente i propri sentimenti, ma di capire -anzi- che essi non hanno minore importanza dei problemi altrui.

Ho trovato illuminante al proposito questa riflessione di Peter Bichsel:

“Che cosa sono i miei personali dispiaceri (i problemi con la mia innamorata per esempio) commisurati all’orrore della guerra? Posso ancora lamentarmi del mio mal di testa se altri soffrono la fame? So che è ridicolo, e vedo anch’io che il mio mal di testa non è importante. Ma temo che se non posso e non devo occuparmi della mia propria tristezza, non potrò occuparmi allora neanche della tristezza del mondo. La guerra mi ha già raggiunto. Sta distruggendo i miei sentimenti e li sta rendendo ridicoli. La guerra si sta aprendo un varco nella mia anima. Sono una vittima della guerra. Infatti una paura grande apre le porte a una paura piccola, e la paura rende ridicolo il mio personale dolore, e senza il mio personale dolore io sono disumanizzato e sono già sulla strada per diventare un colpevole.”

Riappropriarsi quindi del proprio vissuto personale, anche a livello emotivo, non rappresenta una fuga intimistica, ma la continua ricerca di un punto di equilibrio fra l’attenzione a sé e quella agli altri, nella consapevolezza che i processi storici di cambiamento sono inevitabilmente lenti e che siamo tutti individui storicamente situati.

Ma nell’attesa che questi processi si realizzino -ritorna allora con forza la domanda iniziale- dinnanzi alle sofferenze in cui vivono  milioni di fratelli nel mondo, come possiamo essere in pace con noi stessi?
Qualcuno sostiene che occorra un cammino interiore che ci porti alla pace, prima di aprirci agli altri.
Riprendendo ancora una volta una riflessione di Paulo Freire io credo che invece possa avvenire solo il contrario:

“Se aspettassi di essere in pace con me stesso per aprirmi agli altri, forse non farei mai niente.
Posso trovare la pace con me stesso solo nella misura in cui riesco a costruire la pace con i fratelli, con il creato e con il creatore.”

Rispetto al Creatore certo -ed è curioso che mi ritrovi a parlarne proprio in giorno di Pasqua- il mistero della sofferenza pone sempre interrogativi profondi.

“Se Dio non esistesse ci farebbe una figura migliore”, mi ha detto una volta il mio amico Daris, esprimendo in maniera essenziale il rifiuto, condiviso da molti giovani, dell’immagine di un Dio onnipotente che tollera tante ingiustizie e sofferenze.
“Dio, se c’è, deve essere buono! Come può ignorare tanti problemi?” E’ questa l’idea che porta molti ragazzi all’ateismo oggi.
E’ curioso notare come l’ateismo, nato molto recentemente nella storia umana, solo con l’illuminismo, coinvolga ancora oggi meno del 5% della popolazione mondiale, tutto per lo più concentrato nel mondo occidentale.
Qualcuno potrebbe interpretare questo dato come frutto di una moderna consapevolezza che sta portando alla liberazione da quella religione che Marx definiva “l’oppio dei popoli”. Ma forse per i Cristiani c’è anche dell’altro.

Padre Zanotelli ha detto che “Forse Dio non è un padre onnipotente come ce lo siamo sempre immaginato per rispondere ai nostri bisogni, forse è come una madre impotente che assiste il suo figlio ammalato senza potervi fare niente. Cristo in croce rappresenta proprio questo, un Dio che si è fatto uomo per entrare nella storia….”

Madre Teresa di Calcutta diceva che “Dio non ha mani per aiutare chi soffre, siamo noi le sue mani.”
Penso che forse siamo in una fase nuova della fede cristiana, in cui ci si sta finalmente liberando da molte proiezioni false che ci siamo trascinati per secoli. Come diceva giustamente il pazzo del villaggio nel film “Train de vie”: “Dio forse ha creato l’uomo, ma l’uomo di sicuro ha creato Dio”.
Ci stiamo avvicinando all’essenza del messaggio di Cristo, ben riassunto dal detto di S.Agostino “ama e fa ciò che vuoi”.

Dopo secoli in cui la religione (o farei meglio a dire le religioni) si è prestata a legittimare il potere, divenendone di fatto uno strumento, oggi le cose sembrano finalmente cambiare.
Non attecchisce più la visione medioevale che suggeriva: “porta pazienza, sopporta le bastonate e poi andrai in paradiso…”; come ha detto molto chiaramente padre Raniero Cantalamessa “Noi non siamo qui per andare in paradiso, ma per crearlo!” e questa è una vera rivoluzione copernicana.


La fede cristiana si libera così dalla distorsione intimistica funzionale al potere, e recupera la sua originaria forza di cambiamento sociale e di protagonismo storico, che aveva contraddistinto l’azione rivoluzionaria delle prime comunità cristiane, realmente capaci di condividere, rifiutare la violenza delegittimando così il potere di Roma, superare i pregiudizi e le discriminazioni consolidate nella tradizione…

Tocca a noi recuperare quella originaria forza di cambiamento sociale. E lo possiamo fare solo accettando i nostri limiti e le nostre personali fragilità.