Testa, cuore e pancia

Il cervello riesce a controllare le nostre paure? O forse è meglio coinvolgere anche il cuore?

Una riflessione su come avvengono le nostre scelte e su come possiamo cercare di valorizzare gli elementi razionali evitando di sprecarli.

Sbagliando non si impara!

E’ con grande piacere che annuncio l’uscita, a breve, del mio nuovo libro “Sbagliando non si impara”, frutto di una riflessione che porto avanti da diversi anni e che ho voluto approfondire e sistematizzare – per poterla condividere con tutti – in questo saggio leggero ed ironico, che uscirà in gennaio per l’editrice EMI.

copertina,libro,michele dotti,sbagliando non si impara,successi,cambia il mondo,cambiamo noi,emi,libreria,gennaioEcco la quarta di copertina:

“Se fosse vero che sbagliando si impara, come ci hanno sempre ripetuto,  dovremmo essere tutti perfetti!

Invece continuiamo a ripetere ogni giorno gli stessi errori,  senza neppure troppa fantasia.

Questo accade perché in realtà  è solo dai successi che nasce il cambiamento, a tutti i livelli:  personale, sociale, culturale…

Questo libretto ci mostra come imparare a riconoscerli,  crearli e replicarli.

Come farne insomma una regola nella nostra vita, anziché una eccezione.”

E questo è l’indice del libro, che è già tutto un programma:

1. Chi cerca non trova
2. Sbagliando non si impara
3. Sbagliare è umano, errare è divino
4. Chi fa da sé fa per sé
5. Tutti sono indispensabili, qualcuno è importante
6. Mogli e buoi dei paesi suoi
7. Mangia come parli
8. Peggio soli che ben accompagnati
9. Ambasciator porta pena
10. Prima il piacere,  insieme al dovere
11. In salita tutti i Santi aiutano
12. Non perdere la bussola… o la mappa
13. Ognuno è perfetto
14. Ricordati che devi sbagliare!
15. Chi non cerca trova

Nelle prossime settimane pubblicherò anche qualche estratto…

Inizia la scuola, ma non per tutti

Lunedì per mio figlio Francesco sarà il primo giorno di scuola, è emozionatissimo; sua sorella Eleonora incomincerà invece la quinta elementare.

E’ stupendo osservarli, tutti presi nella preparazione degli zaini, degli astucci, dei pennarelli…

Potete dunque immaginare quali emozioni io abbia provato leggendo questa lettera, inviata da una mamma al Comitato Donne per Taranto, e perché abbia deciso di condividerla con tutti voi attraverso questo blog.

donne,taranto,parma,diossina,pil,salute,figlio,lavoro,vita,comitato“Scrivo da Parma in uno dei miei soliti viaggi della Vita per curare mio figlio da un male che sappiamo tutti avere una causa ambientale.

Le ragioni che cercano di impormi non mi bastano, io so solo che mio figlio oggi non ha potuto iniziare la sua PRIMA MEDIA e il suo zaino nuovo (“perchè ora sono grande mamma!”) comprato con tanto entusiasmo è rimasto nella sua cameretta che ormai vede così raramente perchè è sempre in corsie d’ospedale.

E’ questa la vita che vogliono imporci? E’ questa la vita che vogliono dare ai nostri figli? Siamo ancora disposti a far pagare a loro la nostra incapacità di tutelarli fino in fondo?

Io non ci sto e per il mio ometto lotterò fino allo stremo delle forze perchè a lui venga ridata la Vita e agli altri bambini di Taranto non gli venga mai più negata.

Non ci sono ragioni che tengano: la salute di mio figlio non vale il posto di un operaio, nè il pil che vogliono far girare. Provi qualcuno a dirmi ancora questa cosa e gli farò vedere le braccia di mio figlio!

Lui oggi doveva essere tra i banchi di scuola e non con una flebo nel suo debole e fragile braccino.

Grazie per tutto ciò che fate per noi, non stancatevi di lottare e fatelo anche per il mio piccolo ometto”.
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Io mi domando, come faceva anche Bob Dylan nella splendida Blowin’ in the wind: quante volte un uomo può voltare la testa fingendo di non vedere?”

Caro Marchionne, noi non vogliamo fare la tua vita

Al grande incontro di Teano c’è stato un intervento, fra i tanti, che mi ha colpito profondamente e che ha toccato tutta la platea, al punto da  sollevare tutti in piedi in un lunghissimo e commosso applauso; è stato quello di Antonio Di Luca, operaio cassintegrato allo stabilimento Fiat di Pomigliano, che desidero ringraziare di cuore per la nitida lezione di dignità che ha offerto a tutti noi!

Voglio condividere con voi un breve estratto del suo splendido intervento:

antonio_di_luca.jpg“Sono padre di tre figli, monoreddito, e da oltre ventiquattro mesi in cassa integrazione. E, sembra quasi inutile dirvi che sono impegnato in una lotta quotidiana, tra un debito e l’altro, per affrontare e risolvere i problemi familiari più elementari: dalle medicine ai libri, alla spesa per l’alimentazione, alle semplici richieste dei miei figli, spesso, con mio immenso dolore senza la possibilità di sostenerle.

Devo essere sincero. Di fronte a questo stato di cose, di fronte al fatto che noi lavoratori siamo gli unici a pagare sulla nostra pelle la crisi cui ci hanno portato i padroni, le dichiarazioni di Marchionne come quella di essere un metalmeccanico o sulla sfida nel trovare un operaio disposto a fare la sua vita (con uno stipendio, voglio ricordarlo, di 435 volte il mio) suona come una disgustosa, inaudita provocazione.

Provocazione alla quale io non intendo rispondere nella maniera più logica, e cioè: «Caro Marchionne proviamo a farlo questo scambio. Noi al tuo posto, tu al nostro posto, sulla catena, ai ritmi massacranti che stai imponendo su scala globale».

images?q=tbn:ANd9GcRkJmnQ7AEM6BKHeN0Rl-n1OqDPhvyt7MInPkv1E7P6mF6QVCEOcw&t=1No, non voglio rispondere così perché, caro Marchionne, noi non accettiamo uno scambio che mortificherebbe la dignità del lavoratore.

Non lo accettiamo, anche perché non educheremmo mai i nostri figli al profitto e allo sfruttamento dell’altro, all’affossamento della democrazia, alla cancellazione della Costituzione italiana come hai chiesto di fare a Pomigliano.

Noi, desidero tranquillizzarti, non vogliamo fare la tua vita essenzialmente per una questione morale, per una questione etica.

Perché per noi la vita è un valore, non è una merce.

Dunque, ai nostri figli questo insegniamo: il valore della vita e il rispetto per gli altri. Per l’altro.”

Lingua mooré: a scuola di vita…

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“In Africa quando muore un anziano brucia una biblioteca”  ..

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Amadou Hampâté Bâ  ..

 


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Forse molti conoscono questa celebre frase di Hampâté Bâ, un grande poeta del Malì, che riassume splendidamente l’importanza dell’oralità nelle culture africane.

La parola infatti è tutto nella comunità di villaggio!

 

E’ attraverso la parola che si prendono le decisioni comuni e si trasmette tutto il sapere antico, le conoscenze, la cosmogonia, la saggezza degli anziani che parlano ogni sera in un cerchio, intorno al fuoco, con i bambini che ascoltano attenti i loro racconti.

 

E anche le donne, che difficilmente prendono la parola in un’assemblea, hanno un loro spazio per esprimersi in una maniera più intima ma non per questo meno profonda ed incisiva: dice un proverbio moagà … “la Barba decide al mattino ciò che la Treccia ha suggerito durante la notte”!

 

Ma quanto ne sappiamo di questa parola? Di queste lingue africane che sono l’espressione di un popolo e lo specchio della sua cultura?

 

Vorrei analizzare solo alcune espressioni in lingua mooré, la lingua dei mossì etnia principale del Burkina Faso, per vedere come queste ci mettono in discussione e ci aprono nuove prospettive e chiavi di lettura.

 


Quale sviluppo? Somwata!


Consideriamo la traduzione che propone Bernard Lédéa Ouedraogo per la parola “sviluppo” in lingua mooré:

 


“Se si dovesse tradurre il termine “sviluppo” in lingua mooré,
nel linguaggio dei contadini, si impiegherebbe l’espressione
“somwata” che significa: “le buone relazioni e i benefici aumentano”.
Non è forse abbastanza chiaro? “

 

Uno sviluppo inteso non come raggiungimento del benessere economico – cioè come crescita materiale – ma di un benessere globale, che privilegia le relazioni sociali e l’armonia della comunità.

 

Se prendessimo questa concezione dello “sviluppo” come metro di riferimento, chi risulterebbe “sottosviluppato”?
Gli africani che dedicano tanta attenzione ai rapporti sociali o noi che salutiamo a fatica i nostri vicini di casa?
Un mio amico italiano mi ha detto: “Se è davvero così, allora sono loro che devono venire da noi a fare “progetti di sviluppo”, per insegnarci a riscoprire la ricchezza dei rapporti umani!”

Forse non ha tutti i torti.

 


Quale benessere? Lafi!


Ma c’è un’altra espressione in lingua mooré su cui vale la pena riflettere: “lafi, onnipresente nei saluti, che significa al tempo stesso “salute fisica”, “pace interiore” e “pace” nella comunità e nel paese, intesa come assenza di guerra o conflitti interni.

Non esistono tre parole distinte per esprimere questi concetti che risultano quindi legati indissolubilmente in una concezione del “benessere” che racchiude gli aspetti sia fisici che psichici e morali, e non può esistere se non è condiviso dalla intera comunità in cui viviamo.

 

Quanto siamo lontani dalla cultura consumistica che ha creato una società dell’abbondanza con una concezione del ben-essere (o meglio “ben-avere”!) esclusivamente individualistica e materiale, che però si scopre sempre più insoddisfatta e stressata.

 

E’ interessante notare come nella società tradizionale moagà esistesse una figura particolare, il “saaba” (fabbro) che particolarmente temuto per la sua capacità di domare il fuoco, fosse responsabile del mantenimento della pace nel villaggio; tutto ciò ben prima della creazione di mediatori di pace, forze di interposizione e caschi blu vari…

 


Chi gestisce il potere? Nàaba


Presso i mossì il potere (naam) viene normalmente gestito dagli anziani in funzione della loro età e dello status sociale della famiglia cui appartengono.

L’anziano non è però espressione di un potere personale fine a se stesso, ma rappresenta la parola degli antenati, che deve far rispettare, e conseguentemente la legge e la legittimità del gruppo.

 

Possiamo osservare come, in lingua moré, il termine “Nàaba” abbia contemporaneamente il significato di “capo” e di “servitore”.

 

Secondo la tradizione, inoltre, il potere di un capo è sancito dalla totale mancanza di beni materiali: chi possiede tutto, non ha bisogno di possedere niente.

 

Una leggenda moagà racconta di tre fratelli che si videro distribuire ciascuno una borsa che conteneva il simbolo della loro attività futura.
La borsa del primo fratello conteneva grani di miglio, ed egli infatti divenne agricoltore. La borsa del secondo fratello conteneva ferro, e questi divenne fabbro. La terza borsa, infine, non conteneva nulla: il terzo fratello divenne infatti un capo.

 

Quanti nàaba, intesi in questo senso, riusciremmo a trovare in Italia?

Quanti candidati avremmo alle elezioni se questi dovessero essere servitori in un’ottica che ci ricorda Gandhi, e poveri come San Francesco d’Assisi?

 



Brano estratto dal libro “DUDAL JAM, A scuola di pace”, Edizioni EMI, 2010.