Testa, cuore e pancia

Il cervello riesce a controllare le nostre paure? O forse è meglio coinvolgere anche il cuore?

Una riflessione su come avvengono le nostre scelte e su come possiamo cercare di valorizzare gli elementi razionali evitando di sprecarli.

La sincerità è pace fra i nostri desideri e le nostre azioni

“E’ interessante osservare che il termine “sincero” deriva dal latino “sine-cera”, cioé senza cera, con riferimento allo scultore che non usava la cera per mascherare i difetti delle proprie opere.
Quindi sincero è chi non nasconde nulla, per cui non ha nulla da temere.

cuore-cervello-paceIl ché non è poca cosa, poiché come osserva Edmund Burke: “Nessuna passione priva la mente così completamente delle sue capacità di agire e ragionare quanto la paura”.

Ma l’unico modo per non nascondere nulla è non avere nulla da nascondere.

Mi emoziona sempre, rivedendo il film di Gandhi, la scena in cui lui -ancora in Sudafrica- nel teatro stracolmo per l’assemblea contro la legge ingiusta sui lasciapassare, si rivolge alle forze di polizia inglesi presenti nella sala dicendo loro: “Noi non abbiamo nulla da nascondere”.

Chi coltiva in cuor suo questa purezza di intenti non può sbagliare!
Non può sbagliare semplicemente perché c’è in lui coerenza fra ciò che desidera e le azioni che mette in campo per ottenerlo. Quindi non ha spazi interiori di distrazione che possano permettere lo sbaglio.

Mentre invece lasciandosi guidare sinceramente dal suo desiderio è nella condizione migliore per “errare”, cioè, come detto, per conoscere mediante l’esplorazione e l’esperienza diretta.”

 

(estratto dal mio nuovo libro “Sbagliando non si impara”, in uscita a metà gennaio per l’editrice EMI.)

Il buonsenso non basta, rivendico la centralità delle relazioni e degli affetti!

Atrio di una scuola media, ore 11,10. Sto aspettando che la dirigente mi riceva per presentarle i laboratori didattici che propongo all’Istituto.

Suona il campanello ed entra una ragazzina.

Si presenta: “Sono una ex-studentessa, l’anno scorso frequentavo la 1°D, poi mi sono dovuta trasferire in Puglia con la mia famiglia. Vorrei fare un saluto ai miei vecchi compagni di classe.

La bidella in portineria alza appena lo sguardo dai moduli che la stanno occupando e risponde: “Non è permesso. Devi aspettare l’uscita da scuola.”

Una insegnante, presente per caso alla scena, prova a mediare: “Ora non puoi entrare in aula, c’è lezione. Magari al cambio dell’ora, fra 10 minuti…”

La ragazza risponde cortese: “Va bene, aspetto.”

LePetitPrince_AntoineDeSaintExupery.jpgLa bidella ribatte decisa: No, non puoi entrare in aula.

L’insegnante riprende ancora la parola, rivolgendosi alla ragazza: “Non potresti aspettare l’uscita, alle 13?”

La ragazza risponde a voce bassa:
“No, stiamo per ripartire.”

Io e l’insegnante guardiamo la bidella, lei non muove di una virgola: “Non si può.”

Ma viene dalla Puglia -insisto io- e sta per ripartire… solo un saluto ai compagni.”

“Noi dobbiamo eseguire le disposizioni della dirigente”, ribatte perentoria la bidella.

La ragazza, sconsolata, gira i tacchi ed esce dalla scuola a testa bassa.

Rimango profondamente scosso da questa scena. Sono senza parole e arrabbiatissimo per come è stata cinicamente mortificata la ragazza.
(La bidella deve ringraziare il cielo che io abbia alle mie spalle una così profonda formazione nonviolenta…)

“Bastava un po’ di buonsenso…” penserete voi. Invece io dico di no!!!

Questa volta non mi basta. Non può essere solo una questione di buonsenso, di smussare gli angoli, di chiudere un occhio e aggirare la regola, nel classico stile “all’italiana”.

Le relazioni umane non possono essere messe così platealmente in secondo piano. Soprattutto non in una scuola!!!

Né si può dare semplicemente la colpa alla bidella -per quanto odiosa mi appaia la sua rigidità- perché lei è l’ultima ruota del carro, semplice esecutrice -facilmente ricattabile- di ordini altrui

Il problema è più profondo e diffuso, a livello culturale. Questa scena, a mio avviso, è emblematica di un vero e proprio conflitto fra la ragione e il cuore, che rivela l’importanza enorme che viene attribuita nella nostra società alla dimensione cognitiva rispetto e quella affettiva e relazionale.

E se la poniamo in questi termini ve lo dico chiaro e tondo, io non ho dubbi sulla parte dalla quale schierarmi! Ce l’ha indicata nitidamente Susanna Tamaro.

Però la soluzione non può essere questa. Non voglio entrare nella logica del conflitto.

Non dobbiamo diventare ultras da stadio e tifare per l’una o per l’altra parte, perché in educazione sappiamo perfettamente che l’equilibrio e la serenità di una persona dipendono proprio dall’equilibrio fra le sue varie dimensioni: cognitiva, corporea, affettiva, relazionale e spirituale.

Io capisco che nel momento in cui si stabilisce un regolamento sia giusto usare la testa, essere razionali e non emotivi. Ma anche su un piano puramente razionale sarebbe giusto ricordarci che siamo esseri umani, fatti non solo di cervelli da coltivare nella didattica, ma anche -e soprattutto- di affettività e relazioni, da curare nella consapevolezza del ruolo che queste rivestono nelle nostre vite e della fragilità che esse portano inevitabilmente con sé.

actu2009_ggally.jpgMa provate a pensare come si sarà mai sentita questa ragazzina alla quale è stato impedito di rivedere anche solo per un minuto i suoi compagni, di salutarli, di riabbracciarli… neanche nel regime carcerario più duro si impedisce ai delinquenti la visita dei familiari per alcuni minuti una volta al mese!

Per cui nei prossimi giorni io andrò dalla dirigente e le spiegherò l’accaduto per filo e per segno, cercando di essere costruttivo e non polemico, ma fermamente determinato ad ottenere che il regolamento, in qualche modo, riconosca la centralità delle relazioni e una violenza simile non abbia più ad accadere, in alcun modo.

Affinché altre ragazze, un domani, possano maturare e vivere i propri rapporti con gli altri con una sensibilità e una capacità di empatia ben più profonde di quelle che questa ragazzina ha dovuto subire in questa triste storia.

Quello che serve, la tua parte

dal blog di Ezio Orzes

 

Mio nonno era un contadino, parlava poco, e quando parlava, lasciava spesso i discorsi a metà, se ne usciva con poche parole, mai definitive, ti guardava sornione e ti lasciava lì a pensare.
_

http://www.ezioorzes.it/wp-content/uploads/2011/05/Il-contadino-V.van-Gogh..jpgIn quello spazio sospeso tra domande e risposte stava la saggezza del suo semplice cuore e della terra che curava con dedizione.

Da piccolo trascorrevo parte dell’estate da lui anche se abitava poco distante da casa mia.  Lo seguivo in campagna e apprendevo dalla misura dei suoi gesti quanto dalla sconfinata vivacità dei suoi occhi.

Alla sera quando insieme si tornava verso casa, si passava davanti alla fontana e poi ci si sedeva assieme sul carro, sotto il portico. Da lì si vedevano la campagna, i campi, i prati, i filari d’uva.

Era bello guardarsi indietro, lasciare lo sguardo scivolare sui bordi del campo e più su ad incontrare le nuvole oltre il bosco.

“Vedi – mi diceva mentre arrotolava la prima e ultima sigaretta della giornata – qualsiasi cosa farai nella vita dovrai restare sempre  un po’  contadino, dovrai prenderti cura di un pezzo di terra, con curiosità e attenzione, dovrai fare semplicemente quello che serve, la tua parte.

Ad Attilio


»
Con la semplice coscienza del fornaio…»» La poesia ci ricorda che siamo stati tutti bambini!»» Il tempo della storia

Dove può arrivare l’amore di un padre per il proprio figlio

Non ci sono parole che possano spiegare il coraggio e la forza d’animo di questo padre straordinario, Dick Hoyt.

I suoi muscoli -primo fra tutti il cuore- scrivono per il figlio Rick una poesia davvero commovente.

Per conoscere meglio la loro storia meravigliosa continua a leggere qui di seguito.

Il papà più forte del mondo

(Da Sports Illustrated, di Rick Reilly)

Cerco di essere un buon padre. Aiuto i miei ragazzi. Lavoro la notte per pagare i loro messaggini. Li porto a vedere gli spettacoli.

Ma in confronto a Dick Hoyt, faccio schifo.

Ha spinto ottantacinque volte suo figlio disabile per i 42.195 km della maratona. Otto volte non solo l’ha spinto per 42.195 km in sedia a rotelle, ma l’ha pure trainato per 3,8 km in una barchetta a nuoto e per 180 km in bici su un sedile ricavato sul manubrio–tutto nello stesso giorno.

Dick l’ha portato a sci di fondo, in spalla per arrampicare e una volta attraverso tutti gli USA in bici. Il che ridimensiona un po’ il portare tuo figlio al Bowling, no?

E cosa ha fatto Rick per suo padre? Non molto–a parte salvargli la vita.
Questa storia inizia a Winchester, nel Massachusetts, 43 anni fa, quando Rick rimase soffocato dal cordone ombelicale durante il parto, lasciandogli un danno cerebrale e inabile a controllare gli arti.

“Sarà un vegetale per il resto della vita;” – racconta Dick – lo dissero i dottori a lui e a sua moglie Judy quando Rick aveva nove mesi. “Mettetelo in un istituto.”

Ma gli Hoyt non ci stavano. Avevano notato che gli occhi di Rick li seguivano per la stanza. Quando Rick ebbe 11 anni lo portarono alla facoltà di Ingegneria alla Tufts University e chiesero se ci fosse qualcosa che permettesse al ragazzo di comunicare. “Non esiste”, dice Dick che gli fu detto. “Non c’è niente che vada nel suo cervello.”

“Gli racconti una barzelletta,” ribatté Dick. Lo fece. Rick rise. Evidentemente c’erano un sacco di cose che ‘andavano’ nel suo cervello. Collegato ad un computer che gli permetteva di controllare un cursore toccando un interruttore con un lato della testa, Rick fu finalmente in grado di comunicare. Le prime parole? “Go Bruins!” [squadra di hockey di Boston, N.d.T.] E quando un suo compagno di classe rimase paralizzato per un incidente e la scuola organizzò una corsa per raccogliere fondi, Rick si lanciò: “Papà, la voglio fare.”

Sì, certo. Come avrebbe fatto Dick, che chiamava se stesso un “ciccione” e che non aveva mai corso per più di un chilometro, a spingere il figlio per oltre otto chilometri? Comunque provò. “Dopo ero io l’handicappato,” dice Dick, “sono stato dolorante per due settimane.”

Quel giorno la vita di Rick cambiò. “Papà,” scrisse, “quando correvamo, non mi sentivo più disabile!”

E quella frase cambiò la vita di Dick. Divenne ossessionato dall’idea di far provare a Rick quella sensazione più spesso che poteva. Si mise così in forma che lui e Rick erano pronti per la maratona di Boston del 1979.

“Non esiste,” disse a Dick un giudice di gara. Gli Hoyt non erano un corridore singolo, e non erano un contendente in sedia a rotelle. Per diversi anni Dick e Rick si unirono semplicemente alle enormi competizioni, finché non trovarono un modo per entrare in gara ufficialmente: nel 1983 corsero una maratona così forte che si qualificarono per quella di Boston dell’anno successivo.

Poi qualcuno disse, “Ehi, Dick, perché non il triathlon?”

Un tipo che non ha mai imparato a nuotare e che non è salito su una bici da quando aveva sei anni, come può portarsi dietro suo figlio di 50 kg in una gara di triathlon? Comunque, Dick provò.

Ora hanno all’attivo 212 gare di triathlon, inclusi 4 massacranti Ironman da 15 ore alle Hawaii. Deve essere deprimente essere un atleta di 25 anni ed essere superati da un anziano che traina un adulto in una barchetta, che ne pensi?

Ehi, Dick, perché non vediamo cosa faresti da solo? “Neanche per idea,” dice. Dick lo fa puramente per “la sensazione straordinaria” che prova nel vedere Rick con un sorrisone mentre corrono, nuotano e pedalano insieme.

Quest’anno, alle rispettive età di 65 e 43 anni, Dick e Rick hanno finito la loro ventiquettresima maratona, al 5.083esimo posto su oltre 20.000 concorrenti. Il loro miglior tempo? Due ore, 40 minuti nel 1992–solo 35 minuti in più rispetto al record del mondo che, nel caso in cui non ti occupi di questo genere di cose, voglio ricordare che è stato ottenuto da un tipo che non spingeva un’altra persona su una sedia a rotelle.

“Non c’è dubbio,” scrive Rick. “Mio papà è il padre del secolo.”

E anche Dick ne ha ricavato dell’altro. Due anni fa ebbe un leggero attacco di cuore durante una gara. I dottori scoprirono che una delle sue arterie era chiusa per il 95%. “Se tu non fossi stato in una forma così strepitosa,” gli disse un medico, “probabilmente saresti morto 15 anni fa.” Così, in un certo senso, Dick e Rick si sono salvati la vita a vicenda.

Rick, che ha la sua casa (riceve assistenza a domicilio) e lavora a Boston, e Dick, in pensione dalla sua occupazione come militare e che vive a Holland, Massachusetts, trovano sempre il modo per stare insieme. Fanno conferenze in giro per il paese e gareggiano in competizioni durissime ogni fin settimana.

Quella sera Rick offrirà la cena a suo papà, ma la cosa che vuole veramente è fargli un regalo che non potrebbe mai comprare.

“La cosa che mi piacerebbe di piu,” scrive Rick, “è che mio papà si sedesse sulla sedia e fossi io a spingerlo, per una volta.”

 

» Meglio restare “con le ruote per terra” » La teologia del vento

Testa, cuore e piedi

Ricevo e con immenso piacere pubblico oggi questa lettera del grande Francuccio Gesualdi, coordinatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, il padre del movimento del consumo critico italiano, che “sogna” insieme a noi la nascita di un nuovo soggetto politico e in queste righe prova ad offrire spunti di riflessione per tracciarne la rotta.

 

 

Caro Michele,

_

cop.aspx?s=B&f=200&x=0&e=9788835024583sostengo l’appello, dobbiamo ritrovare lo spirito di Lilliput che esalta la pluralità di azioni per l’unità di obiettivo. Dobbiamo abbandonare il senso di onnipotenza, che spesso ci fa sentire esclusivi, e capire che singolarmente siamo solo frammenti di un progetto più grande che dobbiamo costruire tutti insieme.
Un progetto che non sia solo di denuncia e di protesta, ma di proposta.

Un progetto che sappia dare risposte ai problemi sentiti dalla gente, tenendo conto che il contesto è cambiato, che non ci sono più spazi per il mito della crescita.
Un progetto che si basi sul senso di sazietà, sapendo che il passaggio dall’economia dello spreco all’economia della sufficienza non è solo una questione di stili di vita, ma di diversa organizzazione economica e sociale.

Questo è il progetto che dobbiamo costruire: un altro modello di società che pur disponendo di meno e sapendo di dover produrre meno rifiuti, sappia garantire a tutti un lavoro, il soddisfacimento dei beni e servizi fondamentali, la qualità della vita.
Un progetto che richiede testa, cuore e piedi, da parte di tutti.

 

Con affetto

Francuccio Gesualdi