L’invasione dei primitivi

Io non sono razzista, però… come rivelano le loro lingue, a questi popoli manca totalmente l’inclinazione al progresso e alla modernità! 

Il tempo dell’onestà

di Marco Boschini

 

La corruzione, per come la intendo io, non è soltanto una mazzetta consegnata nelle mani di un imprenditore ad un politico che non sa fare il suo dovere (amministrare la comunità per conto di essa, con un misto di spirito di servizio, concretezza, trasparenza e, ovviamente, onestà).

images?q=tbn:ANd9GcS90xMf5dTfmEvSsiSHOQOx9EzbFLfBmWuqtQvNt4YTvUfKiD-DLa corruzione è anche, e forse prima di tutto, nella pigrizia di un sindaco che siccome è abituato da sempre ad amministrare sempre nello stesso modo non ha il tempo, la voglia, la curiosità, di alzare il sedere dalla poltrona e di guardarsi intorno, per vedere se c’è qualcuno (e c’è, c’è sempre) più bravo di lui, che è riuscito ad affiancare alla gestione dell’ordinario, la progettazione dello straordinario, il cantiere del futuro, che è poi ciò di cui dovremmo occuparci sempre, noi che pretendiamo fare la politica.

La corruzione ristagna nelle stanze di un sindaco che a tavolino, con i quattro furbetti del quartierino, decide di metter mano per l’ennesima volta al piano regolatore, e trasformare quel poco di terreno agricolo rimasto in spazi da cementificare, un’altra volta ancora, in cambio non di una mazzetta ma di una scuola, o un palazzetto, o una piscina, che serviranno al sindaco per farsi rieleggere al turno successivo.

La corruzione ha il volto e le sembianze del vizio marcio di questa politica stantia, che non sa immaginare altro che crescita, sviluppo, sicurezza, produzione

La corruzione è la megalomania di istituzioni che denunciano carenza endemica di risorse e sperperano denaro pubblico, inutilmente, e vivono il governo delle cose come fanno i bambini ingordi, di fronte all’albero di Natale: cercando sempre il pacco più colorato, e pesante, e grande.

La corruzione è anche l’allineamento della politica nazionale su questioni che possono mutare, o meno, il nostro futuro: e se mai c’è stato un momento per parlare, questo è quel momento. Questo è il tempo.

Perché l’orologio scorre inesorabile e il 2013 si avvicina, e allora non ci saranno Europe, Monti, scuse, a nascondere questa politica in default di credibilità. Lo dico con forza e spero che il messaggio possa arrivare a chi si candida a governare questo Paese dopo il ventennio berlusconiano.

Per essere credibili dobbiamo mettere al centro una rivoluzione, semplicemente. L’onestà è il mezzo su cui saliremo per raggiungere la destinazione, che dev’essere a mio modesto avviso una società fatta di tante comunità locali in cui la sostenibilità, l’integrazione, il buon senso, saranno i mattoni per far su le case, e accogliere le persone.

Per essere credibili dovremo poter contare su una politica che dialoga, ma in cui il dialogo non sia come dicono tutti i partiti sul TAV: “parliamo poi però l’opera si fa ugualmente“

Per essere credibili, e appetibili, dobbiamo poter proporre un modello di società davvero altro, alto: in cui i rifiuti non si bruciano, ma si riciclano; in cui le centrali si spengono, e si accende il sole; in cui si ha cura del suolo, e l’acqua resta pubblica (qualcuno si ricorda, per caso, dei referendum?); in cui si fanno asili per i nostri figli e assistenza per i nostri anziani e non si buttano risorse per acquistare cacciabombardieri che esportano democrazia a suon di bombe. In cui gli onesti, e le persone perbene, vengono premiati e presi a modello, mentre i corrotti e i farabutti vengono espulsi dai partiti, e presi a pedate.

Se mai c’è stato un momento per parlare, questo è quel momento. Questo è il tempo. Di dire no al TAV e sì al futuro, e di immaginare un futuro in cui il Ministero più importante sia quello delle Piccole Opere di Buonsenso, ciò di cui il nostro trasandato Paese avrebbe proprio un gran bisogno.

Lingua mooré: a scuola di vita…

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“In Africa quando muore un anziano brucia una biblioteca”  ..

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Amadou Hampâté Bâ  ..

 


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Forse molti conoscono questa celebre frase di Hampâté Bâ, un grande poeta del Malì, che riassume splendidamente l’importanza dell’oralità nelle culture africane.

La parola infatti è tutto nella comunità di villaggio!

 

E’ attraverso la parola che si prendono le decisioni comuni e si trasmette tutto il sapere antico, le conoscenze, la cosmogonia, la saggezza degli anziani che parlano ogni sera in un cerchio, intorno al fuoco, con i bambini che ascoltano attenti i loro racconti.

 

E anche le donne, che difficilmente prendono la parola in un’assemblea, hanno un loro spazio per esprimersi in una maniera più intima ma non per questo meno profonda ed incisiva: dice un proverbio moagà … “la Barba decide al mattino ciò che la Treccia ha suggerito durante la notte”!

 

Ma quanto ne sappiamo di questa parola? Di queste lingue africane che sono l’espressione di un popolo e lo specchio della sua cultura?

 

Vorrei analizzare solo alcune espressioni in lingua mooré, la lingua dei mossì etnia principale del Burkina Faso, per vedere come queste ci mettono in discussione e ci aprono nuove prospettive e chiavi di lettura.

 


Quale sviluppo? Somwata!


Consideriamo la traduzione che propone Bernard Lédéa Ouedraogo per la parola “sviluppo” in lingua mooré:

 


“Se si dovesse tradurre il termine “sviluppo” in lingua mooré,
nel linguaggio dei contadini, si impiegherebbe l’espressione
“somwata” che significa: “le buone relazioni e i benefici aumentano”.
Non è forse abbastanza chiaro? “

 

Uno sviluppo inteso non come raggiungimento del benessere economico – cioè come crescita materiale – ma di un benessere globale, che privilegia le relazioni sociali e l’armonia della comunità.

 

Se prendessimo questa concezione dello “sviluppo” come metro di riferimento, chi risulterebbe “sottosviluppato”?
Gli africani che dedicano tanta attenzione ai rapporti sociali o noi che salutiamo a fatica i nostri vicini di casa?
Un mio amico italiano mi ha detto: “Se è davvero così, allora sono loro che devono venire da noi a fare “progetti di sviluppo”, per insegnarci a riscoprire la ricchezza dei rapporti umani!”

Forse non ha tutti i torti.

 


Quale benessere? Lafi!


Ma c’è un’altra espressione in lingua mooré su cui vale la pena riflettere: “lafi, onnipresente nei saluti, che significa al tempo stesso “salute fisica”, “pace interiore” e “pace” nella comunità e nel paese, intesa come assenza di guerra o conflitti interni.

Non esistono tre parole distinte per esprimere questi concetti che risultano quindi legati indissolubilmente in una concezione del “benessere” che racchiude gli aspetti sia fisici che psichici e morali, e non può esistere se non è condiviso dalla intera comunità in cui viviamo.

 

Quanto siamo lontani dalla cultura consumistica che ha creato una società dell’abbondanza con una concezione del ben-essere (o meglio “ben-avere”!) esclusivamente individualistica e materiale, che però si scopre sempre più insoddisfatta e stressata.

 

E’ interessante notare come nella società tradizionale moagà esistesse una figura particolare, il “saaba” (fabbro) che particolarmente temuto per la sua capacità di domare il fuoco, fosse responsabile del mantenimento della pace nel villaggio; tutto ciò ben prima della creazione di mediatori di pace, forze di interposizione e caschi blu vari…

 


Chi gestisce il potere? Nàaba


Presso i mossì il potere (naam) viene normalmente gestito dagli anziani in funzione della loro età e dello status sociale della famiglia cui appartengono.

L’anziano non è però espressione di un potere personale fine a se stesso, ma rappresenta la parola degli antenati, che deve far rispettare, e conseguentemente la legge e la legittimità del gruppo.

 

Possiamo osservare come, in lingua moré, il termine “Nàaba” abbia contemporaneamente il significato di “capo” e di “servitore”.

 

Secondo la tradizione, inoltre, il potere di un capo è sancito dalla totale mancanza di beni materiali: chi possiede tutto, non ha bisogno di possedere niente.

 

Una leggenda moagà racconta di tre fratelli che si videro distribuire ciascuno una borsa che conteneva il simbolo della loro attività futura.
La borsa del primo fratello conteneva grani di miglio, ed egli infatti divenne agricoltore. La borsa del secondo fratello conteneva ferro, e questi divenne fabbro. La terza borsa, infine, non conteneva nulla: il terzo fratello divenne infatti un capo.

 

Quanti nàaba, intesi in questo senso, riusciremmo a trovare in Italia?

Quanti candidati avremmo alle elezioni se questi dovessero essere servitori in un’ottica che ci ricorda Gandhi, e poveri come San Francesco d’Assisi?

 



Brano estratto dal libro “DUDAL JAM, A scuola di pace”, Edizioni EMI, 2010.

Aiutati che il Ciel ti aiuta…

formica_biscotti.jpgPare davvero che gli abitanti dei Paesi poveri, alla fine, se ne siano accorti.

E abbiano pensato di fare da sé.

 

La storia, del resto, ha insegnato loro che non aveva senso attardarsi ulteriormente nell’attesa, finora sempre tradita, dell’aiuto promesso da parte dei paesi ricchi.

E così hanno iniziato a fare come si è sempre fatto nel corso dei millenni: se qualcosa ti serve, te la vai a prendere dov’è.

 

Non siamo abituati a leggere la storia delle migrazioni moderne in questi termini. Si parla sempre di “fuga dalla miseria, o dalle guerre”… tutte cose vere, per carità.

 

Ma avete mai provato a pensare, più semplicemente, che non vi fosse altro sistema per riprendersi, almeno in parte, ciò che i paesi del cosiddetto “nord del mondo” (ci sarebbe da discutere su questa definizione) hanno letteralmente “rubato” loro (su questo invece non c’è molto da discutere) in secoli di colonizzazione, imperialismo… globalizzazione?

Cambiano i nomi ma la sostanza resta sempre la stessa, potremmo definirla -più sinceramente- “dominazione”.

E pare proprio che la loro consapevolezza di questo -a dispetto di tante nostre elaborazioni filosofiche, analisi statistiche, strategie politiche- si sia fatta via via più forte, nel corso degli ultimi decenni, fino a divenire inarrestabile!

 

E così, mentre noi stiamo qui a piangerci addosso per la crisi economica -che è anzitutto una crisi finanziaria, ampiamente annunciata e prevedibile- sta accadendo sotto i nostri occhi qualcosa di straordinario. Quello che forse non avremmo mai neppure immaginato in queste proporzioni.

 

I poveri, attraverso le migrazioni e le rimesse che spediscono nei propri paesi d’origine, stanno dando un contributo allo sviluppo di questi paesi che è quasi il doppio degli aiuti pubblici allo sviluppo destinati loro dai paesi ricchi.

 

Le rendite degli immigrati sono arrivate a toccare infatti, nel 2008, la stratosferica cifra di 280 miliardi di dollari!

Ancora nel 2003 erano “solo” 135 miliardi di dollari, quindi si tratta di una cifra più che raddoppiata nel giro di appena 5 anni.

 

E non si tratta soltanto di aiuti alle proprie “famiglie”, ma molto spesso anche alle proprie “comunità” di origine, attraverso la realizzazione di progetti per l’istruzione, la sanità, l’agricoltura, le risorse idriche…

 

Questo non significa certo che i paesi ricchi possano quindi sentirsi sollevati dagli impegni assunti in sede internazionale con gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, anzi è esattamente il contrario!

Se gli immigrati -che rappresentano spesso degli elementi deboli nelle società che li “ospitano”- riescono a fare tanto, che scuse ci sono per non fare di meglio da parte degli Stati delle nazioni più ricche del pianeta?

 

Mentre noi ne discutiamo cercando una soluzione, i nostri fratelli africani, asiatici e latino-americani (gli australiani non se li fila mai nessuno, poverini…) hanno pensato bene di arrangiarsi da soli.

 

O in partnership con chi -come Mani Tese o altre ONG- ha fiducia nella loro capacità di prendere il proprio avvenire in mano.

quale sviluppo?

Esistono molte visioni diverse sul tema dello sviluppo.
A seconda della prospettiva adottata si tende a sostenere e considerare positivamente certe strategie piuttosto che altre.
d621960334abac3c3eb550d62ee8482d.jpgLo stesso termine “sviluppo” è al centro di un acceso dibattito, perché conterrebbe già in sé -secondo alcuni- un evidente contraddizione con i principi della sostenibilità ambientale.
Anche in prospettiva interculturale è interessante osservare le diverse prospettive su questo concetto.
In Burkina Faso, nella lingua mooré -ad esempio- esiste un’espressione “somwaya” che viene normalmente tradotta con il termine sviluppo, ma come suggerisce Bernard Ledea Ouedraogo, fondatore e presidente del Movimento Naam, sarebbe più corretto tradurre così: “le buone relazioni e i benefici aumentano”. Con una attenzione posta dunque prevalentemente ai rapporti sociali, più che alla crescita quantitativa.

Ho preparato una slide-show in power point che ripercorre brevemente l’evoluzione della riflessione su questo concetto, che qui potete scaricare.

sviluppo.ppt