“Ma parla come mangi…”

cucina_italiana.jpgAh, la cucina italiana!

Tutto il mondo ce la invidia…

 

Eppure a volte ci si dimentica di quanto sia grande l’apporto che abbiamo ricevuto nel corso della storia proprio dall’incontro con le altre culture, in una feconda contaminazione reciproca.

 

 

Parafrasando il famoso testo con il quale il grande antropologo Ralph Linton (nel 1936!) introduceva ai suoi studenti la prima lezione di antropologia culturale, potremmo immaginare una storia di questo tipo: 

 

“Un abitante qualsiasi di una città qualsiasi del nord Italia si alza la mattina e si siede a tavola per la colazione; beve una tazza di caffè, originario della penisola arabica, o una tazza di tè, bevanda indiana, addolcite con un cucchiaio di zucchero, raffinato per la prima volta in India.

Mangia una fetta di pane, importato nell’Italia pre-latina dai Greci, con una marmellata di albicocche (di origini cinesi).

Se si comporta da salutista, prende anche uno yogurth, il vitto dei poveri in Turchia, e una spremuta di arancia, frutto proveniente dall’Oriente tramite gli arabi.

A pranzo si mangia un bel piatto di risotto alla milanese: sia il riso che lo zafferano arrivano dall’Oriente. Di secondo una cotoletta alla milanese guarnita con patate arrosto, giunte dall’America, o spinaci, originari del Nepal.

A cena ovviamente polenta (il mais arriva sempre dall’America), magari con il tacchino ripieno alla milanese (altro animale americano) o la mitica Cassoeula  (il maiale venne addomesticato per la prima volta in Cina, circa diecimila anni fa).

Prima di andare a letto si beve un grappino (i distillati giunsero in Europa tramite i farmacisti arabi) e, pensando con orrore a quanto gli immigrati possano inquinare la sua cultura, ringrazia una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento padano.”

 

Il che vale, sia ben inteso, anche per la cucina di qualsiasi altra regione italiana…

 

E lo stesso vale anche per molti altri ambiti, fra i quali, in maniera davvero significativa, anche la lingua.

 

Sono moltissime infatti le parole che noi usiamo quotidianamente che ci vengono dall’incontro con altre culture; molte sono di origine araba oppure provengono dai cosiddetti popoli “barbari”…

Dall’arabo:
Ammiraglio (amìr al-bahr, comandante del mare), darsena (dar as-sina, fabbrica), monsone (mawsim, stagione), arrivano dal mare, portate dalle incursioni dei saraceni e dei turchi.

Al debito culturale in campo agricolo ed idraulico sono invece collegabili: il carciofo (khurshùf), la melanzana (badingiàn), l’albicocca (al-bar-qùq), lo zucchero (sukkar), il limone (dal persiano limùn), l’arancia (pers. narang), il riso (ruzz), il latte cagliato (in turco yogurt), lo zafferano (za’faràn), il candito (qandi), il cotone (qutun), il caffè (dal turco qahvè), la caraffa (qaràba), la tazza (tasa), la giara (giarra).

In ambito scientifico: almanacco (al-manah, calendario), algoritmo (al-khwarizmi); alchimia (al-kimya), alcool (al-kohl, spirito), alcali (alqali, sostanza basica), alambicco (al-inbìq), elisir (al-ik-sìr, pietra filosofale).

Nel settore tessile: ricamo (raqm, disegno), scialle (dal persiano shal); o altri termini ancora come taccuino (taqwìm, corretta disposizione), o caracca (haraqa, nave incendiaria) o zibibbo (zabìb).

E ancora: materasso (matrah), divano (divan), ragazzo (raqas), sandalo (sandal), tamburo (tanbur), gazzella (gazala), giraffa (zarafa), gelsomino (yasamin).

Dal gotico:
Bega (baga), bandiera (bandwa), fiasco (flasko), guardare (garedan), albergo (haribairg), elmo (hilms), nastro (nastilo), rubare (raubon), recare (rikan), stalla (stalla), stanga (stanga), stecca (stika).

Dal longobardo
Anca (anka), boa (bouga), federa (federa), palla (palla), scaffale (skaf), spaccare (spakkan), staffa (staffa), sterzo (sterz), strofinare (straufinan),guancia (wankja), guarire (warian), zanna (zann).

Dal franco
Banco (bank), dardo (darod), feudo (fehu), omaggio (hommage), roba (rauba), sala (sal), schernire (skernjan), scherzo (skerzon), snello (snel), tregua (treuwa), galoppare (klaupan).

 

Insomma è davvero il caso di dire: “Ma parla come mangi!”