Lingua mooré: a scuola di vita…

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“In Africa quando muore un anziano brucia una biblioteca”  ..

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Amadou Hampâté Bâ  ..

 


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Forse molti conoscono questa celebre frase di Hampâté Bâ, un grande poeta del Malì, che riassume splendidamente l’importanza dell’oralità nelle culture africane.

La parola infatti è tutto nella comunità di villaggio!

 

E’ attraverso la parola che si prendono le decisioni comuni e si trasmette tutto il sapere antico, le conoscenze, la cosmogonia, la saggezza degli anziani che parlano ogni sera in un cerchio, intorno al fuoco, con i bambini che ascoltano attenti i loro racconti.

 

E anche le donne, che difficilmente prendono la parola in un’assemblea, hanno un loro spazio per esprimersi in una maniera più intima ma non per questo meno profonda ed incisiva: dice un proverbio moagà … “la Barba decide al mattino ciò che la Treccia ha suggerito durante la notte”!

 

Ma quanto ne sappiamo di questa parola? Di queste lingue africane che sono l’espressione di un popolo e lo specchio della sua cultura?

 

Vorrei analizzare solo alcune espressioni in lingua mooré, la lingua dei mossì etnia principale del Burkina Faso, per vedere come queste ci mettono in discussione e ci aprono nuove prospettive e chiavi di lettura.

 


Quale sviluppo? Somwata!


Consideriamo la traduzione che propone Bernard Lédéa Ouedraogo per la parola “sviluppo” in lingua mooré:

 


“Se si dovesse tradurre il termine “sviluppo” in lingua mooré,
nel linguaggio dei contadini, si impiegherebbe l’espressione
“somwata” che significa: “le buone relazioni e i benefici aumentano”.
Non è forse abbastanza chiaro? “

 

Uno sviluppo inteso non come raggiungimento del benessere economico – cioè come crescita materiale – ma di un benessere globale, che privilegia le relazioni sociali e l’armonia della comunità.

 

Se prendessimo questa concezione dello “sviluppo” come metro di riferimento, chi risulterebbe “sottosviluppato”?
Gli africani che dedicano tanta attenzione ai rapporti sociali o noi che salutiamo a fatica i nostri vicini di casa?
Un mio amico italiano mi ha detto: “Se è davvero così, allora sono loro che devono venire da noi a fare “progetti di sviluppo”, per insegnarci a riscoprire la ricchezza dei rapporti umani!”

Forse non ha tutti i torti.

 


Quale benessere? Lafi!


Ma c’è un’altra espressione in lingua mooré su cui vale la pena riflettere: “lafi, onnipresente nei saluti, che significa al tempo stesso “salute fisica”, “pace interiore” e “pace” nella comunità e nel paese, intesa come assenza di guerra o conflitti interni.

Non esistono tre parole distinte per esprimere questi concetti che risultano quindi legati indissolubilmente in una concezione del “benessere” che racchiude gli aspetti sia fisici che psichici e morali, e non può esistere se non è condiviso dalla intera comunità in cui viviamo.

 

Quanto siamo lontani dalla cultura consumistica che ha creato una società dell’abbondanza con una concezione del ben-essere (o meglio “ben-avere”!) esclusivamente individualistica e materiale, che però si scopre sempre più insoddisfatta e stressata.

 

E’ interessante notare come nella società tradizionale moagà esistesse una figura particolare, il “saaba” (fabbro) che particolarmente temuto per la sua capacità di domare il fuoco, fosse responsabile del mantenimento della pace nel villaggio; tutto ciò ben prima della creazione di mediatori di pace, forze di interposizione e caschi blu vari…

 


Chi gestisce il potere? Nàaba


Presso i mossì il potere (naam) viene normalmente gestito dagli anziani in funzione della loro età e dello status sociale della famiglia cui appartengono.

L’anziano non è però espressione di un potere personale fine a se stesso, ma rappresenta la parola degli antenati, che deve far rispettare, e conseguentemente la legge e la legittimità del gruppo.

 

Possiamo osservare come, in lingua moré, il termine “Nàaba” abbia contemporaneamente il significato di “capo” e di “servitore”.

 

Secondo la tradizione, inoltre, il potere di un capo è sancito dalla totale mancanza di beni materiali: chi possiede tutto, non ha bisogno di possedere niente.

 

Una leggenda moagà racconta di tre fratelli che si videro distribuire ciascuno una borsa che conteneva il simbolo della loro attività futura.
La borsa del primo fratello conteneva grani di miglio, ed egli infatti divenne agricoltore. La borsa del secondo fratello conteneva ferro, e questi divenne fabbro. La terza borsa, infine, non conteneva nulla: il terzo fratello divenne infatti un capo.

 

Quanti nàaba, intesi in questo senso, riusciremmo a trovare in Italia?

Quanti candidati avremmo alle elezioni se questi dovessero essere servitori in un’ottica che ci ricorda Gandhi, e poveri come San Francesco d’Assisi?

 



Brano estratto dal libro “DUDAL JAM, A scuola di pace”, Edizioni EMI, 2010.

“Ma parla come mangi…”

cucina_italiana.jpgAh, la cucina italiana!

Tutto il mondo ce la invidia…

 

Eppure a volte ci si dimentica di quanto sia grande l’apporto che abbiamo ricevuto nel corso della storia proprio dall’incontro con le altre culture, in una feconda contaminazione reciproca.

 

 

Parafrasando il famoso testo con il quale il grande antropologo Ralph Linton (nel 1936!) introduceva ai suoi studenti la prima lezione di antropologia culturale, potremmo immaginare una storia di questo tipo: 

 

“Un abitante qualsiasi di una città qualsiasi del nord Italia si alza la mattina e si siede a tavola per la colazione; beve una tazza di caffè, originario della penisola arabica, o una tazza di tè, bevanda indiana, addolcite con un cucchiaio di zucchero, raffinato per la prima volta in India.

Mangia una fetta di pane, importato nell’Italia pre-latina dai Greci, con una marmellata di albicocche (di origini cinesi).

Se si comporta da salutista, prende anche uno yogurth, il vitto dei poveri in Turchia, e una spremuta di arancia, frutto proveniente dall’Oriente tramite gli arabi.

A pranzo si mangia un bel piatto di risotto alla milanese: sia il riso che lo zafferano arrivano dall’Oriente. Di secondo una cotoletta alla milanese guarnita con patate arrosto, giunte dall’America, o spinaci, originari del Nepal.

A cena ovviamente polenta (il mais arriva sempre dall’America), magari con il tacchino ripieno alla milanese (altro animale americano) o la mitica Cassoeula  (il maiale venne addomesticato per la prima volta in Cina, circa diecimila anni fa).

Prima di andare a letto si beve un grappino (i distillati giunsero in Europa tramite i farmacisti arabi) e, pensando con orrore a quanto gli immigrati possano inquinare la sua cultura, ringrazia una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento padano.”

 

Il che vale, sia ben inteso, anche per la cucina di qualsiasi altra regione italiana…

 

E lo stesso vale anche per molti altri ambiti, fra i quali, in maniera davvero significativa, anche la lingua.

 

Sono moltissime infatti le parole che noi usiamo quotidianamente che ci vengono dall’incontro con altre culture; molte sono di origine araba oppure provengono dai cosiddetti popoli “barbari”…

Dall’arabo:
Ammiraglio (amìr al-bahr, comandante del mare), darsena (dar as-sina, fabbrica), monsone (mawsim, stagione), arrivano dal mare, portate dalle incursioni dei saraceni e dei turchi.

Al debito culturale in campo agricolo ed idraulico sono invece collegabili: il carciofo (khurshùf), la melanzana (badingiàn), l’albicocca (al-bar-qùq), lo zucchero (sukkar), il limone (dal persiano limùn), l’arancia (pers. narang), il riso (ruzz), il latte cagliato (in turco yogurt), lo zafferano (za’faràn), il candito (qandi), il cotone (qutun), il caffè (dal turco qahvè), la caraffa (qaràba), la tazza (tasa), la giara (giarra).

In ambito scientifico: almanacco (al-manah, calendario), algoritmo (al-khwarizmi); alchimia (al-kimya), alcool (al-kohl, spirito), alcali (alqali, sostanza basica), alambicco (al-inbìq), elisir (al-ik-sìr, pietra filosofale).

Nel settore tessile: ricamo (raqm, disegno), scialle (dal persiano shal); o altri termini ancora come taccuino (taqwìm, corretta disposizione), o caracca (haraqa, nave incendiaria) o zibibbo (zabìb).

E ancora: materasso (matrah), divano (divan), ragazzo (raqas), sandalo (sandal), tamburo (tanbur), gazzella (gazala), giraffa (zarafa), gelsomino (yasamin).

Dal gotico:
Bega (baga), bandiera (bandwa), fiasco (flasko), guardare (garedan), albergo (haribairg), elmo (hilms), nastro (nastilo), rubare (raubon), recare (rikan), stalla (stalla), stanga (stanga), stecca (stika).

Dal longobardo
Anca (anka), boa (bouga), federa (federa), palla (palla), scaffale (skaf), spaccare (spakkan), staffa (staffa), sterzo (sterz), strofinare (straufinan),guancia (wankja), guarire (warian), zanna (zann).

Dal franco
Banco (bank), dardo (darod), feudo (fehu), omaggio (hommage), roba (rauba), sala (sal), schernire (skernjan), scherzo (skerzon), snello (snel), tregua (treuwa), galoppare (klaupan).

 

Insomma è davvero il caso di dire: “Ma parla come mangi!”